L’epidemia più recente, esplosa a Kampala – metropoli da quattro milioni di abitanti e snodo nevralgico per l’Africa orientale – ha coinvolto 14 persone: 12 confermate, 2 probabili. Quattro sono morte, dieci sono guarite. Il paziente zero è stato un infermiere, deceduto poco dopo aver contratto la malattia, come riporta il sito di Al Jazeera. Il ceppo responsabile è il Sudan virus, per cui non esiste ancora un vaccino approvato. In assenza di terapie consolidate, i protocolli si affidano a isolamento, tracciamento e sorveglianza territoriale.
Quella del 2025 è stata la nona epidemia nel Paese dal 2000. La vicinanza con la Repubblica Democratica del Congo – dove tra il 2018 e il 2020 si è registrato un focolaio con oltre 2.200 morti – aumenta l’esposizione al rischio. Le foreste tropicali al confine ospitano specie animali considerate serbatoi naturali del virus. Ma sono le condizioni socio-sanitarie a rendere l’ebola endemica: carenze igieniche, ospedali con strumentazioni minime e una profonda diffidenza verso le campagne vaccinali ostacolano ogni sforzo strutturale.
In risposta, nel Paese sono in corso test clinici per un vaccino specifico contro il Sudan virus, presso il Mulago National Referral Hospital di Kampala. Le autorità sanitarie contano sull’esperienza maturata in oltre vent’anni di epidemie per contenere i focolai. Purtroppo, secondo gli esperti, senza un potenziamento duraturo della rete ospedaliera nelle aree rurali e un cambiamento culturale nella percezione delle malattie infettive, il rischio di nuovi contagi resta elevato.
È proprio in queste aree dimenticate che si inseriscono interventi paralleli, tra sanità, cooperazione e diritti umani. Un esempio concreto è quello che noi di Pobic portiamo avanti da anni nella regione occidentale del Rwenzori. Già nel 2016 aveva avviato il programma Pobic for Women, in collaborazione con Rena-Foundation, per assistere donne in gravidanza prive di accesso a cure sicure. Il 2024 ha segnato un’evoluzione significativa: la missione Open Heart Uganda ha permesso a tre bambini con gravi cardiopatie di essere trasferiti in Italia per ricevere cure salvavita. Sono i primi di 59 minori sottoposti a screening. Un ponte umanitario tra due mondi, reso possibile non solo dalla solidarietà, ma da una visione focalizzata su fragilità sistemiche che l’ebola, puntualmente, continua a rivelare.